John Lennon
diceva che la vita è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare
programmi. No.
La morte è quello che ti succede mentre sei impegnato a fare programmi.
Mentre sei impegnato a vivere. O come molti di noi fanno, a sopravvivere.
Il tempo scorre
veloce, frenetico ad un ritmo incessante, tra una corsa in auto, perché siamo
in perenne ritardo e una doccia rapida, giusto per scrollarci di dosso le
scorie di una giornata sempre troppo movimentata. E se ci prendiamo un momento
è per scattarci un selfie, come se da un lato volessimo rendere immortale
quell’istante; lo stesso istante che verrà interrotto da una chiamata di lavoro
o il suono del clacson dalla macchina dietro, perché il semaforo è verde e noi
stiamo scegliendo quale filtro applicarci. Così la vita passa, tra stati
postati e foto impostate. Come se quegli ologrammi potessero davvero
rappresentare noi stessi. Come se la vera essenza di noi stessi fosse davvero
quella. Che poi il problema non è nemmeno Facebook o Instagram o Snapchat. O il
tempo che impieghiamo a scattare, registrare, modificare, filtrare, taggare,
postare, commentare.
Il problema, il danno, il guaio, la disgrazia è il tempo
che perdiamo ad essere arrabbiati perché il lavoro non va, perché lui
visualizza e non risponde, perché si è bucata la ruota, perché lei sta con un
altro, perché il caffè si è versato sulla camicia di seta nuova, perché hanno
finito il 37 di quel sandalo che con il vestito a pois cavolo ci stava così
bene. Il tempo che perdiamo ad impuntarci perché è lei che mi ha deluso e non
le voglio parlare, perché l’orgoglio viene prima di tutto, perché io volevo
mangiare sushi e invece siamo andati in pizzeria. Il tempo che perdiamo ad
arrabbiarci, perché l’amore non arriva o non ritorna o forse non c’è mai stato.
A lamentarci, del tempo, del freddo, del caldo, della pioggia quel giorno in
cui dovevamo andare al mare, di quel 28 che doveva essere un 30.A preoccuparci
di cosa metterci, di cosa fare, di dove andare, della multa proprio un minuto
dopo che era scaduto il biglietto, del parcheggio che ci rubano sotto gli
occhi, delle telefonate inopportune ad ora di pranzo e di cena e di colazione,
della batteria del telefono che dura troppo poco, del traffico che invece è
sempre tanto.
Ebbene sì, è
questo il problema, il danno, il guaio, la disgrazia. E anche se vivere senza
pensieri semplicemente non si può, non è nella natura umana, io credo che
dovremmo tutti imparare ad essere più leggeri. A non mancarci, a telefonare, ad
incontrarci. A dire “ti voglio bene lo stesso, anche se non ci parliamo.”.
Ad
abbracciarci, a baciarci, a correrci incontro. A fare cavolate, ad affrontarne
poi le conseguenze. A buttarci perché male che vada un rimpianto è sempre
meglio di un qualsiasi rimorso.A rischiare, a metterci in gioco, a non prenderci
troppo sul serio. Ad esagerare, con le chiacchiere, con le risate e con i caffè.
A provarci, a riprovarci e a lasciar perdere quando semplicemente non va più.
Ad andare a pranzo dai nonni, a chiacchierare con loro di quando le mezze
stagioni esistevano ancora, di quando le ciliegie avevano ancora sapore. A
mangiare carboidrati dopo le 18 anche la prova costume è alle porte. A ballare,
sopra un tavolo con i capelli scombinati e i piedi doloranti, in una discoteca
piena di gente che ti guarda allibita. A lasciare il mondo per com’è perché lei
ti ha chiesto di vedervi. A salire su un aereo per raggiungere qualcuno che non
è mai troppo lontano dal nostro cuore. A fare un pacco e spedirlo perché può
esserci la distanza ma non per forza l’assenza. A cantare, ad urlare e
bisbigliare. A lasciar correre, a non impuntarci, a non perderci in futili
dettagli, per stupidi motivi. A credere in noi stessi, nell’amore e in questa
vita che è troppo breve per non essere vissuta ogni giorno come se fosse
l’ultimo.